Ticket to Dublin
Il 1968 fu, com’è noto, l’anno più caldo della contestazione giovanile che, in Italia, era iniziata con l’occupazione dell’Università Cattolica di Milano il 17 novembre 1967 e di Palazzo Campana a Torino il 27 dello stesso mese. Gli Istituti medici dell’Università torinese, però, furono investiti più tardi da quest’ondata di ribellione: lo saranno, drammaticamente, soltanto nell’anno successivo.
In perfetta controtendenza rispetto a quanto stava avvenendo nel resto del mondo, nella primavera di quel fatale ’68 l’equipe nefrologica della Clinica Medica viveva un momento di gioiosa euforia perché era arrivata la conferma che un nostro lavoro era stato accettato al congresso dell’E.D.T.A. che doveva tenersi a Dublino.
Si trattava della presentazione di un apparecchio che consentiva la conduzione automatica della dialisi peritoneale, frutto dell’estro creativo e del paziente lavoro portato avanti da Sandro Alloatti. Il titolo scelto era “A new automatic peritoneal dialysis system” e gli autori: A.Vercellone, G.Piccoli, P.L.Cavalli, R.Ragni and S.Alloatti. Il profano potrebbe stupirsi che il responsabile principale della ricerca fosse finito in fondo alla lista dei nomi. In realtà, com’è noto agli addetti ai lavori, in questi casi l’ultima posizione viene subito dopo il primo nome in ordine di importanza, per cui la scala di merito, almeno in apparenza, era stata rispettata.
L’elaborato era stato accolto nella sezione “Demonstration”, cioè un’esposizione di tabelloni che oggi vengono comunemente chiamati poster, ma allora noi non avevamo ancora preso dimestichezza con questo termine. Attualmente le figure, i grafici e i testi dei poster vengono applicati sui riquadri messi a disposizione dagli organizzatori del convegno appena prima del vernissage. Non ricordo se le cose stessero in questi termini già allora, ma da noi questa possibilità non fu neanche presa in considerazione perchè sarebbe stato come se ad un’esposizione ufficiale un pittore si fosse presentato, poche ore prima dell’inaugurazione, con cavalletto e pennelli sotto il braccio e, lì per lì, si fosse messo a dipingere il suo quadro. No! Il prodotto doveva uscire dal nostro atelier perfettamente finito.
Fu altresì deciso che Roberto Ragni ed io anticipassimo la partenza di qualche giorno portando con noi il tabellone in modo che tutto fosse pronto alla vigilia del convegno, quando sarebbe arrivato il resto della compagnia col capo in testa. Com’era sempre successo in analoghe situazioni ci riducemmo a completare il lavoro all’ultimissimo momento.
La partenza, di prima mattina, fu in perfetto stile fantozziano. Il tabellone non poteva essere sistemato all’interno di nessuna delle nostre auto a causa delle sue ragguardevoli dimensioni. Per fortuna c’era a disposizione una gloriosa Fiat 500 col tetto apribile e Alloatti si sistemò perciò nei sedili posteriori, restando però in piedi e tenendo, a braccia tese, il tabellone sopra il tetto aperto della vettura.
Al momento del check in, vedemmo il nostro tabellone allontanarsi sul nastro trasportatore con lo stesso sentimento con cui una madre vede il proprio figliolo partire soldato: un misto di ansia, di paura ma anche di orgoglio, di speranza e di sogni di gloria. Poi il gruppo si sciolse dandosi appuntamento a Dublino alcuni giorni dopo.
Giungemmo a Londra con un volo British Airways e dopo una breve sosta ci imbarcammo su un volo Aer Lingus diretto a Dublino. Ricordo che al momento del decollo un violento temporale ci creò un po’ di apprensione che si dileguò appena l’aereo superò la fitta coltre di nuvole. A Dublino ritrovammo il sereno che si sarebbe protratto anche nei giorni successivi, alternato a brevi e improvvisi piovaschi. In quel periodo dell’anno e in quelle zone non c’è da preoccuparsi quando piove perché, di sicuro, dopo cinque minuti il tempo vira al bello.
Quello di Dublino era allora un piccolo aeroporto e per il recupero dei bagagli c’era solo un nastro trasportatore. Questa operazione è sempre stata ed è ancora per me un momento ansiogeno, figuriamoci quanto lo fu in quell’occasione in cui era in gioco l’onore della scuola nefrologica torinese. Questo mio sentimento era naturalmente ampiamente condiviso da Ragni. All’ansia sottile che ci pervadeva quando il nastro cominciò a muoversi subentrò l’apprensione quando all’arrivo dei nostri bagagli non seguì la comparsa del tabellone e in angoscia vera e propria quando, dopo qualche singulto, il nastro si fermò definitivamente.
Non restava altra soluzione che rivolgerci all’ufficio reclami. Lì ci accolse un giovane in divisa, sorridente e gentilissimo, al quale, con il nostro inglese traballante, esponemmo il problema. Il primo ostacolo che dovemmo affrontare fu l’esigenza di individuare un’adeguata traduzione inglese di “tabellone”. Il termine “big table” evocò nel nostro sbalordito interlocutore l’immediata immagine di un mobile della sala da pranzo. Quando, con l’ausilio di una gesticolazione fantasiosa e di alcuni schizzi grossolani, riuscimmo a chiarire la configurazione dell’oggetto che era andato smarrito, ci fu richiesta un’esatta descrizione dei materiali, dei colori e delle dimensioni, espresse queste, nel modo più preciso possibile, in piedi e pollici. Chiarito il problema con notevole dispendio di tempo e di energia da entrambe le parti, il giovane impiegato ci consigliò di aspettare il volo successivo proveniente da Londra che molto probabilmente, almeno a suo dire, avrebbe portato a felice conclusione il tormentato spostamento.
Ahimè! Così non fu. Anche questa seconda ansiosa attesa andò delusa, ma il giovane impiegato non perse il suo ottimismo e ci rassicurò che il tabellone sarebbe senz’altro arrivato con un volo pomeridiano.
Non ci restò altro da fare che prendere un taxi, andare all’albergo e attendere sperando. Gli irlandesi hanno un carattere notoriamente rissoso e il nostro tassista ce ne diede una dimostrazione immediata fermando di botto la sua vettura a metà del tragitto per litigare violentemente con un automobilista che aveva osato sorpassarlo.
Ragni aveva prenotato la camera al Russel Hotel, albergo piuttosto sussiegoso che esibiva una grande profusione di velluti e stucchi. Giusto il tempo di sistemare i bagagli, mangiare un boccone e ci mettemmo di nuovo in viaggio per l’aeroporto. Ancora nessuna traccia del tabellone, naturalmente, e per la prima volta cogliemmo nelle parole dell’impiegato un certo allarme per la possibilità che il manufatto potesse aver preso una rotta sbagliata e si trovasse in qualche posto imprevedibile, come Hong Kong o Camberra.
Nei tre giorni successivi, mattina e pomeriggio andammo all’aeroporto per sentirci dire, ogni volta, che il tabellone non era arrivato e ad ogni contatto l’ottimismo dell’impiegato nei riguardi di un suo recupero scemava sensibilmente.
Negli intervalli tra questi viaggi della speranza visitammo parte della città ma senza l’interesse che avrebbe meritato, a causa del nostro stato d’animo. Percorremmo decine di volte in su e in giù O’Connel Street, passeggiammo a lungo nel verdissimo Phoenix Park, attraversammo a più riprese Ha’penny Bridge. Ogni tanto cercavamo di soffocare la tristezza cedendo a qualche tentazione di gola. Ricordo che Ragni, in una di queste occasioni in cui ci concedemmo un gelato, optò per un prodotto d’aspetto e di colore raccapriccianti denominato “Melancholy Baby”. La cameriera che ci stava servendo trattenne a stento una risata, nascondendosi dietro al taccuino delle ordinazioni, sforzandosi di immaginare Ragni, che la guardava stupito, indossare le vesti di una malinconica fanciulla.
Arrivammo così alla vigilia dell’arrivo del grande Capo e non potemmo più rinviare oltre l’ingrato compito dei renderlo edotto della tragica situazione.
Allora non c’era ancora la teleselezione e quindi, pieni di angoscia, ci avviammo all’Ufficio Postale centrale. L’arredo era vecchiotto, risalente all’apparenza al 1920 o giù di lì.
C’era una fila di finestrotti con cornici di legno attraverso i quali gli impiegati dialogavano col pubblico. Come il nostro interlocutore finì di prendere nota della nostra prenotazione, senza neanche guardarci in viso abbassò la serranda del suo sportello e ci lasciò basiti come due allocchi. Ragni ed io ci guardammo in faccia incerti sul da farsi e stavamo per rivolgerci allo sportello accanto quando improvvisamente la testa dell’impiegato spuntò al di sopra del finestrotto, con la serranda sempre chiusa, e sparò una bordata di parole per noi incomprensibili. Vista la nostra espressione ebete, ci indicò con un gesto perentorio una cabina. In questa sede una cortese centralinista ci informò via cavo e in tempo reale delle varie tappe intermedie del collegamento telefonico con Torino.
Ancora oggi è per me angosciante il ricordo della reazione provocata dal nostro annuncio all’altro capo del filo del telefono. Una reazione gelida ma foriera di tempesta che invano ho cercato di cancellare dalla memoria e sulla quale non intendo soffermarmi, perché ancora troppo dolorosa nonostante il passare degli anni. Lascio quindi immaginare con quale stato d’animo uscimmo da quell’ufficio.
Percorrendo silenziosamente la strada del ritorno all’albergo, passammo davanti ad un cinema e Ragni osservò:
“Guarda! Danno un film di cow boys! Andiamo a vederlo. Non c’è bisogno di capire tutto quel che dicono e ci risolleviamo un po’ il morale”.
Accettai di buon grado. In realtà il titolo che ci aveva tratto in inganno era “Poor cow”, che tradotto letteralmente suona “povera vacca”, ma che in inglese assume il significato di “poveraccia” o “povera diavola”. Si tratta di un film di Kenneth Loach che narra le vicende di una ragazza del popolo, di umile estrazione ma dal fisico attraente, che sposa un poco di buono che la maltratta e da cui ha un figlio. Il marito organizza un colpo con altri furfanti ma viene arrestato. La ragazza lo tradisce con un altro membro della banda che considera il grande amore della sua vita. Quando il marito esce dal carcere, però, inspiegabilmente ritorna con lui. Il tutto è parlato in cockney cioè nel dialetto di Londra.
Ho potuto ricostruire la trama, spero con discreta precisione, perché, in un rigurgito di masochismo sono andato a rivedere il film, naturalmente doppiato, dopo il mio rientro in Italia.
Come si può bene immaginare, all’uscita dal cinema il nostro morale non era alle stelle né accennò a migliorare quando, la mattina successiva, ci avviammo all’aeroporto per accogliere il prof.e il resto del suo staff. Sandro Alloatti giunse col volo precedente e con poche parole e qualche gesto accoratamente partecipe, ci fece capire quale sarebbe stata l’atmosfera al momento dell’arrivo del gruppo dei big, del quale faceva parte anche Beppe Piccoli, co-autore del poster. Ed in effetti l’apparizione del Gran Capo coincise con un tornado di domande, deplorazioni, biasimi, recriminazioni, critiche, disapprovazioni e rimproveri, espressi con voce stentorea e gestualità shakespeariana.
In obbedienza all’ingiunzione del Gran Capo, il gruppo compatto si trasferì a quell’Ufficio Reclami che per noi due tapini era diventato quasi una seconda casa. La scena che seguì, nel ricordo assume il ritmo frenetico di una vecchia comica cinematografica. La raffica di richieste del prof.era martellante e, tra una bordata e l’altra della sua dilagante verbosità, mi sforzavo di tradurle al povero impiegato sempre più confuso. Il Capo pretendeva di parlare col responsabile del servizio bagagli, col Direttore dell’Aeroporto; ancora un poco e avrebbe richiesto la presenza del Ministro dei Trasporti se non fosse arrivato a tiro il prof. Migone, il cattedratico nefrologo di Parma, al quale si rivolse per descrivere in tutti i particolari l’inefficienza e la balordaggine dei suoi due inetti collaboratori.
A volte mi viene da pensare che non sia la sorte a governare i casi della vita, ma un gruppo di dèi mattacchioni che da sopra le nuvole tirano le fila degli eventi prendendosi gioco di noi. Dico questo perché proprio mentre l’impiegato proponeva sconsolato, come ultima chance, di andare a fare un sopralluogo nell’hangar di raccolta del materiale trasportato, il prof. Vercellone dopo aver rimesso in libertà il prof. Migone sempre più sconvolto, avanzava un’uguale richiesta.
In lenta e poco speranzosa sfilata, il gruppo si trasferì nell’hangar e, appena spalancato il portellone che immetteva in un antro pieno di articoli di varia natura caoticamente ammassati, in prima fila e ben visibile, immediatamente alla sinistra dell’entrata, faceva bella mostra di sé il fatale tabellone.
A questo punto l’impiegato si chinò in avanti appoggiandosi al tabellone con aria sfinita e vidi (giuro!) una lacrima tremula comparire tra le sue ciglia. Contemporaneamente il Gran Capo si attribuiva con aria esultante il merito di aver risolto il caso in quattro e quattro otto.
Il tabellone fu tempestivamente trasferito in taxi nella sede del Congresso e, nel pomeriggio, fu infine adeguatamente sistemato.
Vercellone, Piccoli, Alloatti, Ragni ed io ci ritrovammo tutti per la cena a cui facemmo seguire, approfittando del tepore d’inizio estate, una passeggiata per le vie di Dublino. Fu, da parte di Vercellone e Piccoli, l’occasione per lanciarsi in un peana elogiativo sulle bellezze della città ben sapendo che a noi due risultava difficile condividere il loro entusiasmo dopo le traversie che avevamo passato.
Ma, comunque sia, tutto è bene quel che finisce bene.
Gigi Cavalli