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Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



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Nella ridente (ridente?) cittadina (o paesone?) di X*, in periodo che non mi va di precisare

Alcuni anni della mia carriera di primario li trascorsi lavorando presso l’ospedale della ridente (ridente?) cittadina (o paesone?) di X*, piuttosto lontana da Torino.
Furono quelli anni sgradevoli, che ricordo malvolentieri. Anzi, per essere proprio chiaro e sincero, furono anni che non ricordo affatto, nel senso che ho sempre cercato, e con impegno, di cancellarli dalla mia memoria. Ma proprio per questa ragione, è anche giusto che questi miei ricordi io li metta sulla carta, adesso, una volta per tutte: bisognerà pur che queste cose le dica, se non altro ad imperituro ricordo e memento.
Quando giunsi nella ridente (eccetera, eccetera) cittadina (eccetera, eccetera) di cui sopra, sin dal primo impatto con le persone con cui avrei dovuto collaborare e convivere, constatai con stupore che tutti quanti - ma proprio tutti, con pochissime eccezioni – a partire dai funzionari e dirigenti non medici dell’ASL e dell’ospedale, dai colleghi del posto e poi su, su, sino, e soprattutto, ai colleghi dirigenti del mio stesso grado, erano fermamente convinti di essere il sale della terra e la crema delle rispettive professioni. Questa loro colossale cantonata ha sempre rappresentato per me – e rappresenta ancora adesso – un fatto alquanto misterioso e difficilmente spiegabile: perché, devo ammetterlo, alcuni di loro (non molti) non erano affatto stupidi.
Le seconda cosa che mi colpì immediatamente fu l’accoglienza riservatami da parte degli altri primari, a partire dal primo giorno. Ho spesso meditato a lungo tra me e me, al fine di scovare nella mia mente una parola, una frase, una definizione corretta ed illuminante per comunicare e far comprendere a terzi, e nelle sue reali proporzioni, questo loro atteggiamento, che si protrasse poi per tutto il periodo della mia permanenza sul posto. E la più precisa e fedele che sono riuscito a coniare è la seguente: essi mi accolsero e poi mi trattarono per alcuni anni – anche qui con qualche rara eccezione – “a colpi di tacco sulle gengive”.  
Anche in questo caso le motivazioni sono rimaste per me abbastanza misteriose, benché io ritenga illuminante in proposito la frase dettami un giorno da uno di loro – uno dei pochi con cui ero riuscito a stabilire un rapporto accettabile – al quale avevo chiesto ragione di tutto ciò: “Ma vedi, Giachino, devi capire. Tu vieni da lontano, sei giovane, aggiornato, pieno di entusiasmo, di idee nuove…, è naturale, è umano, che noi ci si debba difendere in qualche modo…!”.
Fu solo in quel preciso momento che tutto mi fu chiaro e compresi per la prima volta – ero lì già da qualche tempo - che la qualità dell’attività professionale, il benessere dei pazienti, il desiderio di andare avanti e di migliorarsi si trovavano proprio al gradino più basso delle loro priorità esistenziali, e presi quindi dentro di me la decisione di venirmene via non appena me ne si fosse presentata la possibilità: ma – attenzione – non fuggendo, ma solo dopo aver fatto lì, proprio lì, e se necessario a dispetto dei Santi, tutto ciò che era mio dovere fare. E così fu, in effetti.
Io sono di carattere irrequieto, lo sanno tutti quelli che mi conoscono. Alterno momenti di euforia ad altri di scoramento. Talvolta, nei momenti di difficoltà, posso dare l’impressione di star per abbandonare la nave che affonda: ma poi non lo faccio, e non lo faccio mai. Quando pianto i denti in un osso che mi piace e che so essere mio a buon diritto, per levarmelo di bocca occorre, assieme a lui, strapparmi via anche tutti i denti che vi sono conficcati: ed infatti, prima di trasferirmi in sede più gradita, riuscii ad attivare e a rendere operativo un nuovo reparto, in costruzione da oltre dieci anni e mai portato a termine, in quanto poteri molto forti premevano affinché i locali in questione venissero destinati ad un uso diverso. Sono ancora oggi, come allora, fermamente convinto del fatto che, senza la mia testardaggine, quel reparto non avrebbe mai visto la luce.
Ma mi accorgo di star divagando, e torno quindi al cuore dell’argomento. Qualcuno degli improbabili lettori di queste righe si starà chiedendo, a questo punto: “Ma, Santo Iddio, che cosa avranno mai fatto questi cattivissimi colleghi al povero dottor Giachino?”.
Beh, posso illustrarvi in proposito alcuni scampoli (ma scampoli assolutamente minori, poiché quelli più importanti – per ragioni facilmente intuibili - proprio non posso narrarveli). Prima di cominciare l’elencazione, però, mi sembra giusto precisare che, com’è naturale, il sottoscritto non accettava i colpi di tacco sulle gengive rassegnato e supinamente, ma, aggrappandosi al suo famoso spiritello interiore toscano, reagiva per le rime – anche se solo verbalmente – per mezzo di battute di spirito pungenti e coniando – facendoli passare per lapsus innocenti ed involontari – neologismi al vetriolo.
Allora: possiamo andare a incominciare col collega primario che, di fronte alla richiesta dall’amministrazione (tutti conosciamo l’annosa storia, mai risolta attraverso i decenni, relativa al ricovero dei nostri pazienti), di ospitare nel suo reparto alcuni dei miei pazienti, fece sistemare i loro letti sul pianerottolo delle scale, proprio di fronte all’ascensore, e lì li lasciò, con dentro i relativi malati, per alcune ore, cioè a dire sino a quando non si rese conto che così facendo sarebbe divenuto molto impopolare presso i pazienti stessi ed i loro congiunti.
Questo signore, inoltre, mi impediva di visitare i miei pazienti degenti nel suo reparto e di leggere – e tanto meno di scriverci sopra le mie consulenze – le loro cartelle: egli teneva la cartella aperta tra le mani, in modo che io – di fronte a lui – non potessi scorgere quel che vi era scritto, e mi diceva, con l’apparente più assoluta disponibilità:
“Vuoi sapere la situazione del malato? L’esito dei suoi esami? La sua pressione arteriosa? Se ha la febbre oppure non ce l’ha? Chiedi, e io ti rispondo”.
Oltre a ciò egli inviava nel mio reparto, per l’effettuazione delle applicazioni, i pazienti degenti presso il suo reparto, accompagnati da una inedita richiesta scritta di “consulenza dialitica” (sic!), ed oltretutto in giorni ed ore stabiliti da lui e non basati sulle necessità del malato o almeno sui turni di attività in sala dialisi: ricordo a questo proposito un paziente affetto da frequenti e gravi crisi di iperpotassiemia (che può portare a morte improvvisa per arresto cardiaco), che un lunedi mattina – e quindi dopo l’intervallo più lungo senza trattamento – non venne inviato per l’effettuazione dell’applicazione programmata in quanto, testualmente: “stava benissimo e non ne aveva alcun bisogno”.
Incrociando tutte le dita delle mani e dei piedi io attesi sino a pomeriggio inoltrato e poi – ad un’ora in cui sapevo che il signore in questione non era più presente in reparto – telefonai ad uno dei suoi aiuti, consigliandogli di effettuare al malato un controllo di potassiemia urgente, e facendogli capire – e neppur troppo larvatamente – che sia il paziente che loro stessi stavano correndo dei rischi non da poco: e mezz’ora dopo, infatti, il malato mi veniva fiondato in reparto già in stato di bradicardia e con un potassio ematico di 8,5 mEq/lt (tutto ciò non dice nulla a chi non sia medico, per cui chiarisco: senza un’applicazione d’urgenza, quel paziente sarebbe morto per arresto cardiaco al massimo nell’arco di un paio d’ore, se non di meno).  
Si può citare – ma questa volta solo per sorridere – il collega primario che, riappacificandosi con me dopo una piccola baruffa, mi abbracciò strettamente e nel contempo mi addentò con forza l’ala dell’orecchio destro, lasciandomi un segno che durò qualche giorno (ricordo che io – appassionato di lirica – mi preoccupai non poco, dopo questo fatto, dato che il medesimo identico episodio si verifica nella “Cavalleria Rusticana” di Mascagni tra Compare Alfio e Compare Turiddu, poco prima che succeda quel che poi succede…).
Sempre il signore del morso, in precedenza, si era ripetutamente, e per settimane, fatto negare con le scuse più inconsistenti alle mie richieste di un abboccamento al fine di discutere assieme le problematiche di alcuni pazienti, che presentavano patologie comuni alla mia ed alla sua specializzazione. Alla fine, agganciato da me fermamente per telefono, mi diede finalmente l’appuntamento richiesto: nel suo studio in ospedale ed alle ore 5 e 40 di una domenica mattina. Ed ebbe anche la faccia di bronzo di raccomandarmi di essere puntuale, perché alle 6 aveva un appuntamento importante. Io gli risposi che preferivo vederlo verso le 23 di un sabato sera ai giardinetti poco lontani dall’ospedale (quelli dove abitualmente stazionavano le prostitute), ma lui non gradì e declinò a sua volta l’invito. Seguirono poi la riappacificazione ed il morso.  
Posso ancora ricordare il collega primario che mi assillò per mesi affinché io introducessi nelle liste di attesa per il trapianto un paziente a cui teneva molto, abitante nel sud dell’Italia, ma senza l’esecuzione degli indispensabili controlli preventivi di tipo clinico, ematochimico e di istocompatibilità: collega che, di fronte all’ennesimo mio sia pur cortese e motivato diniego (“non sono io, ma i colleghi del Centro Trapianti di Torino, ad avere la facoltà di iscrivere o meno un paziente alla lista…, in ogni caso si esporrebbe il malato ad un rischio gravissimo, iscrivendolo senza aver effettuato i controlli preventivi…, oltretutto, anche se fosse possibile iscriverlo senza i dati di istocompatibilità, proprio per la loro mancanza egli non verrebbe poi mai chiamato..”) se ne uscì alla fine con la seguente frase liberatoria e rivelatrice: “Ma lo vuoi capire o no che di questo paziente a me non me frega un c…o? Io debbo solo fare un favore a qualcuno!”.  
E ancora… Il collega primario (aspetto nobile e austero, folti capelli bianchi) che mi batteva bonariamente la mano sulla spalla, al termine dei colloqui durante i quali io gli chiedevo di dare il via ad un’attività di prelievo di organi a scopo di trapianto, dicendo: “Sono proprio contento della tua venuta qui. Hai portato una ventata d’aria fresca e di iniziativa nel nostro ambiente!”, e poi, una volta uscito il sottoscritto dal suo studio, convocava d’urgenza tutti i suoi collaboratori per dire loro che mai e poi mai si sarebbe dovuto attivare quel tipo di attività presso il loro ospedale…
Gli anni sono lunghi, ma alla fine, come tutte le cose, passano anche loro. Vinsi il concorso per un posto di primario presso un altro ospedale, molto più vicino a Torino, diedi le dimissioni e me ne andai, lasciando dietro di me un reparto lucido e nuovo, ben organizzato e perfettamente funzionante.
Uscendo dall’ospedale per l’ultima volta – non vi sono mai più ritornato, né sono ritornato o tornerò mai più nella ridente (eccetera, eccetera) cittadina (eccetera, eccetera) che lo ospita – parcheggiai la mia auto, per pochi minuti, nella piazza prospiciente all’ospedale.
Poi scesi dall’auto, mi voltai verso l’edificio e, tra i passanti esterrefatti attorno a me, gli indirizzai il più poderoso, potente, definitivo ed omerico gesto dell’ombrello.
Erano ormai terminati. Erano stati sgradevoli, ma alla fine erano terminati, i miei lunghi anni presso ospedale di X*.  
 

Giuliano Giachino


Post scriptum: se non ci credete, a quello che ho scritto, beh, venite a trovarmi e - in privato - potrò specificarvi luoghi, date, nomi e cognomi. E poi raccontarvi - in offerta speciale - tutto quello che qui non ho potuto scrivere…


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