Ragni e i nuovi allievi
Lei é completamente pazzo…!
Torino, Ospedale Molinette, Ottobre 1965
Nell’ottobre del 1965, all’inizio del terzo anno del corso di laurea in medicina, entrai come allievo nel reparto di Nefrologia diretto, nell’ospedale Molinette, dal professor Antonio Vercellone, che ricopriva allora il posto di aiuto della Clinica Medica dell’Università.
Vi entrai come conseguenza di una serie di coincidenze veramente incredibili, tali da far meditare, poiché dimostrano come spesso il futuro ed il destino di ciascuno di noi vengano selezionati tra un’infinità di altri possibili futuri da elementi minori, magari marginali, quando non addirittura del tutto casuali.
Stavo iniziando allora il terzo anno del corso di laurea, come ho detto, e sentivo la necessità di entrare come allievo in qualche reparto od istituto: la grande maggioranza dei miei compagni di corso, in effetti, aveva a quel punto già fatto la sua scelta.
Prima dell’estate, mi ero offerto come allievo - recandomi personalmente sul posto per un colloquio con uno dei collaboratori del professor C* - all’Istituto di G., materia che mi attraeva moltissimo: ma la mia richiesta era stata accolta con una sufficienza che rasentava l’irrisione (il tono che venne usato con me fu all’incirca questo: “Oibò, infimo studentello, ma che cavolo vuoi da noi…?”) ed ero stato messo con decisione alla porta, senza che neppure riuscissi a trovare il tempo – per supportare la mia causa - di esibire il libretto degli esami già sostenuti e superati, tutti (eccetto uno, ma questo episodio sarà l’oggetto di un’altra storiella) con votazioni eccellenti.
Dopo questo episodio un pochino umiliante, non sapevo proprio a chi rivolgermi. Destino volle che frequentassi allora – essendo iscritto al medesimo, diciamo “circolo” cui aderiva anche lui - un coetaneo, strettissimo parente di un famoso professore, il quale, udendo le mie perplessità nel corso di una banale conversazione, mi disse con la più assoluta semplicità: “Ma perché non vai a parlare con mio..., il professor GCD?”. E poi, accorgendosi della mia perplessità al sentir pronunciare un tal nome, aggiunse: “Non c’è problema, l’appuntamento te lo fisso io”.
Fu così che pochi giorni dopo, di prima mattina, bussai alla porta della segreteria dell’Istituto di Clinica Medica dell’Università di Torino. Devo dire che ero piuttosto intimidito, non solamente per la fama del personaggio con cui mi recavo a colloquio, ma anche perché sapevo che in quella segreteria avrei dovuto subito, appena entrato, confrontarmi con una o magari - come in effetti avvenne – con entrambe le segretarie del professore, due specie di erinni tristemente note per la durezza e la scortesia con cui trattavano qualsiasi studente capitasse loro a tiro.
Mi feci coraggio, entrai e, in piedi in mezzo alla stanza, di fronte alle due che già mi guatavano in cagnesco, esposi il motivo per cui mi trovavo lì. Le due trovarono la mia richiesta così stupefacente che per qualche attimo rimasero in silenzio. Poi una delle due abbaiò:
“Ma lei.., ma lei.., ma chi è lei??”.
“Uno studente di medicina”
A questo punto le due proruppero una duplice fragorosa risata che pareva non dover mai terminare, girandosi e rigirandosi più volte l’una verso l’altra sulle loro sedie.
Con la miglior faccia di bronzo che riuscii a tirar fuori e con la calma più assoluta le interruppi dicendo:
“Guardate che ho un appuntamento. Siate così cortesi da controllare…”
L’appuntamento, ovviamente, c’era per davvero, e le due arpie dovettero, sia pur “obtorto collo”, introdurmi alla presenza del professor GCD, che mi trattò con estrema cortesia, informandosi sul sottoscritto, sui miei progetti e le mie aspirazioni. Naturalmente, volle anche vedere il mio libretto universitario, compiacendosi per le ottime votazioni che vi erano registrate, al punto di darmi anche la soddisfazione, una volta che ebbe voltato la prima pagina e scorta l’unica macchia – il mio famoso “diciotto” in B. – di borbottare un qualcosa come: “Beh… vedendo i suoi voti… e conoscendo chi glieli ha dati… va bene così. La prendo come allievo e la mando da Vercellone”.
In definitiva, finii in nefrologia senza neppure saper bene di che cosa si trattasse, e venni immediatamente affidato alle cure ed all’attenzione di un collaboratore di Vercellone, il dottor R.
Il dottor R., destinato con gli anni a divenire, nel mondo professionale, uno dei miei più cari amici, aveva solo pochi, pochissimi anni più di me: ma il suo portamento calmo e distinto, la sua aria severa, il suo atteggiamento attento e sereno, l’insieme insomma del suo modo di agire mi fecero credere che fosse assai più anziano di quel che era e mi ispirarono – almeno nei primi mesi – un vero e proprio timore reverenziale nei suoi confronti.
Ricordo che il giorno stesso del mio arrivo in reparto mi mise in mano una “spasetta” contenente il necessario – siringa di vetro, ago, boccetta di disinfettante, cotone e laccio – e mi ordinò di effettuare un prelievo di sangue venoso ad un determinato paziente ricoverato.
Io presi la spasetta con una mano, mentre lui già si allontanava lentamente lungo il corridoio, senza osar dire una parola e non sapendo come comportarmi: non avevo mai fatto un prelievo di sangue in vita mia…, e non sapevo assolutamente come si facesse!
Ma, arrivato in fondo al corridoio, il dottor R. si fermò, si girò all’indietro verso di me che ero rimasto immobile con la spasetta in mano e mi disse da lontano, con voce abbastanza forte perché io lo udissi, ma senza gridare:
“Vada pure tranquillo…, il paziente glielo ho scelto con le vene molto grosse…!”
Così era, in effetti, ed il mio primo prelievo riuscì perfettamente.
Il terzo o il quarto giorno della mia frequenza in nefrologia, ad un certo punto, il dottor R. mi si avvicinò con aria particolarmente seria e severa e mi disse:
“Venga con me, Giachino, voglio parlarle con calma ed in privato…”, e mi guidò verso uno studio un po’ appartato, giunti nel quale mi fece accomodare su di una sedia, davanti ad una scrivania: e grandi furono il mio stupore – ed anche la mia apprensione – nel vedere che lui, prima di sedersi a sua volta sulla sedia posta all’altro lato della scrivania, si tratteneva per qualche istante presso la porta, chiudendola con cura a chiave!
Una volta sedutosi di fronte a me, il dottor R. mi chiese come mi ero trovato nell’ambiente nefrologico e se stesse maturando o meno nel sottoscritto la decisione di rimanere definitivamente sul posto in qualità di allievo.
Io mi ero trovato benissimo, e risposi pertanto con una serie di frasi affermative, che non lasciavano alcun dubbio sul fatto che la mia intenzione fosse quella di rimanere. Tutto mi aspettavo in risposta, quando ebbi finito, tranne ciò che accadde veramente: lui tacque e mi fissò diritto nel viso, a braccia conserte, rimanendo senza parlare per qualcosa come due o tre minuti.
Ora, due o tre minuti paiono e sono in effetti, se non ci presti attenzione o in un contesto diverso, un tempo brevissimo, un amen, ma vi assicuro che in circostanze particolari, come quella che vi sto narrando, sembrano davvero eterni!
Il silenzio pareva non voler mai finire. Io non sapevo che fare, non osavo parlare per primo, sentivo che stava per essere presa su di me una decisione importante, e tacevo quindi a mia volta.
Finalmente, il dottor R. posò le mani sul bordo della scrivania, si sporse in avanti squadrandomi più da vicino e pronunciò adagio, quasi sillabando le parole, la seguente frase:”Lei è completamente pazzo!”
Credo che il mio sia stato quasi un urlo d’angoscia:
“Ma perché?”
“Perché? Perché? Ma allora lei non ha capito proprio nulla! Non ha capito il tipo di vita che menerà qua dentro! Lei qui lavorerà dodici ore al giorno, tornando a casa per studiare di notte per gli esami che verranno! La avverto, lei lavorerà alla domenica, nei giorni festivi, a Natale, a Capodanno, a Pasqua, e noi non le daremo mai ferie, vacanze o cose del genere… Allora, adesso che sa come stanno le cose, vuole ancora rimanere?”.
Magari sarà stato solo per un senso di sfida, per il desiderio di dimostrargli che non avevo paura… chi lo sa? Però io dissi di si, e così cominciò la mia carriera di nefrologo.
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Impiegai poco tempo a capire che, sotto la scorza burbera di R. c’era in realtà una persona cortese, gentile e generosa, e a sospettare che i modi severi e duri con cui mi aveva accolto al mio arrivo fossero in realtà una specie di “messa in scena” per valutare gli aspiranti allievi e selezionarli, scoraggiando i meno disponibili ed interessati.
Ne ebbi la prova alcuni anni dopo, già laureato, iscritto alla specializzazione in nefrologia e prossimo ad essere “strutturato”, cioè a dire assunto dall’ospedale come assistente.
Era una mattina come tante altre, avevo appena terminato di visitare i pazienti a me assegnati, e cercavo R. per chiedergli un consiglio, senza però sapere dove lui fosse.
Aprii una dopo l’altra una serie di porte, gettando un rapido sguardo oltre la soglia, senza trovarlo, sinché giunsi ad aprire la porta (che lui questa volta si era dimenticato di chiudere a chiave) del famoso studio in cui si era svolto il nostro primo colloquio, e mi trovai di fronte la seguente scena:
R. seduto a braccia conserte da una parte della scrivania. Di fronte a lui, seduto dall’altra parte, un giovane aspirante allievo arrivato in reparto da pochi giorni, con gli occhi spalancati, arruffato e impaurito.
E nel preciso istante in cui spalancavo la porta, udii R. dire, scandendo bene le sillabe:
“Lei è completamente pazzo!”
Giuliano Giachino