Malato o paziente
Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11
MALATO O PAZIENTE?
Pier Luigi Cavalli
Lettura svolta al “20° Corso di Formazione per Nuovi Volontari”
[A.V.O. Cuneo – 10 ottobre 2002]
La domanda del titolo di questa lettura vuole essere il punto di partenza per alcune considerazioni più generali sul rapporto delle persone con la malattia e quindi sui dualismi sano-malato e salute-malattia. Non pretende di essere una trattazione sistematica ed esaustiva. Piuttosto, diciamo, una chiacchierata a ruota libera che cercherei di tenere sul filo della leggerezza, con alcune futili divagazioni che potrebbero anche dare, alla fine, lo spunto per una discussione, un “botta e risposta”, che trovo sia sempre una cosa stimolante.
Vorrei affrontare anche un brevissimo excursus storico, che ci porterà esaminare come si è andato configurando questo tema nel tempo.
Per finire, vorrei accennare ai cambiamenti che si stanno attualmente verificando in questo campo.
“Malato” e “paziente” sono i termini più usati per indicare lo stesso soggetto, ma non sono sovrapponibili. Malato deriva dalla contrazione di due parole latine: male (che ha lo stesso significato dell’italiano) e habitus (attitudine, disposizione). La prima di queste parole ha una connotazione morale negativa che conferisce al termine un valore discriminatorio.
Un esempio può aiutare a chiarire meglio questo concetto. L’omosessualità è un habitus, un’attitudine consistente nell’attrazione erotica verso persone del proprio sesso. Se diamo ad essa una connotazione negativa, diventa un mal-habitus, cioè una malattia – e questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore sarà considerata una perversione.
Personalmente non amo il termine “malato” e gli preferisco il secondo: “paziente” (dal latino pati = patire) cioè persona che soffre. Anche questa parola ha una connotazione di tipo morale, seppure indiretta e di segno opposto. La presenza di una persona che soffre sollecita infatti, come risposta, un aiuto.
Si tratta, tuttavia, di termini che sembrerebbero avviati, entrambi, all’obsolescenza, sostituiti da “utente” o, peggio ancora, “cliente”, termini orrendi che però si adeguano alla trasformazione in atto dell’ospedale in azienda e della sanità in business. In questo senso, il termine “paziente” contrasta col vitalismo tipico dell’epoca che stiamo vivendo: è un termine rispettoso e politicamente corretto, ma c'è il timore che esso possa essere inteso come indicativo di una persona di buon carattere che non si arrabbia mai.
Tuttavia “malato” e “paziente” sono ancora i termini usati più frequentemente, seppure ne esistano anche altri con significato analogo. “Indisposto” è uno di questi, ma ha un significato molto riduttivo. “Infermo” deriva, anch’esso, dal latino, ma attualmente il suo uso, almeno nel linguaggio colloquiale, è quasi scomparso. Però alcuni ospedali, in Piemonte almeno, sono ancora denominati “Ospedali degli Infermi”. Mi domando, a questo proposito, quali funzioni potrebbe svolgere un “Ospedale dei Sani”.
Tra parentesi, questo amore maniacale per la precisione è tipico dei cuneesi. Alcune cronache riportano che quando fu inaugurato il nuovo camposanto di Cuneo, alle Basse di Stura, sopra l’ingresso fu posta la scritta “Cimitero dei Defunti”. Si racconta pure che, nel Trecento, la confraternita del quartiere cuneese di San Giacomo, molto orgogliosa del campanile della propria chiesa, Santa Maria della Pieve, abbia fatto murare una lapide in cui era scolpita la scritta: «Questo campanile è stato eretto qui».
Ma torniamo al tema del nostro discorso, cioè alla domanda “Malato o Paziente?” e, di conseguenza, al dualismo “Sano-Malato”. La linea di demarcazione tra queste due categorie di persone sembra ovvia ma, ad un esame più approfondito, non appare così evidente.
La persona disattenta che si è data una martellata su un dito non è una persona sana ed è, senza dubbio, una persona che soffre, ma nessuno lo definirebbe un malato, semmai uno sfigato. I feriti sarebbero dunque pazienti ma non malati. D’altra parte il portatore di una malattia cronica, supponiamo un tumore, nelle sue fasi precoci, quando non dà ancora segni di sé, è certamente un malato ma, a rigore di termini, non si potrebbe considerare un paziente.
In una nota commedia di Jules Romains, intitolata “Knock, o il trionfo della medicina”, il protagonista, che è un medico, afferma che l’uomo sano è una persona che non ha ancora preso coscienza della sua malattia. L’affermazione è maliziosa e rientra in un filone letterario, soprattutto teatrale, che va dal “Malato immaginario” di Molière al “Dilemma del dottore” di G.B.Shaw, in cui i medici vengono descritti in una luce non proprio favorevole.
Tuttavia lo stesso concetto di Romains è espresso da un Autore inglese, Jurrit Bergsma, in un bel libro, intitolato “Dottori e Pazienti”, che purtroppo non è stato tradotto in italiano. Questo Autore afferma che non è la malattia a creare il malato: questi è creato dalla decisione di consultare un medico. Detto con altre parole: noi diventiamo “malati” nell'esatto momento in cui decidiamo di ricorrere al medico. E qui uso il termine “medico” nel senso più ampio. Può essere il taumaturgo, il ciarlatano, il mago, il medicone, lo stregone o quant'altro volete, perché la gamma è vastissima.
Secondo il modello usuale, nella nostra cultura, l’individuo prova delle sensazioni corporee che interpreta come possibile segno di malattia, le valuta con gradi diversi di apprensione, a seconda del suo stato emotivo, e decide di consultarsi con il medico, il quale a sua volta, ricorrendo ad un suo schema interpretativo, conferma o esclude il sospetto. E’ quindi l'etichetta che viene applicata dal medico ma, in molti altri casi, dalla società, dalla superstizione, che legittima la malattia. In assenza di un’etichetta la malattia, come tale, non esiste. Ma assenza di malattia classificata e catalogata significa, automaticamente, salute? Mi propongo di ritornare su questo argomento.
In quelle che noi definiamo “condizioni di salute”, noi non consideriamo il nostro corpo come un’entità materiale distinta e a sé stante nel nostro esistere nel mondo, a meno che questo concetto non venga affrontato ragionandoci su o, in altre parole, venga razionalizzato. Possiamo sintetizzare questa affermazione nella frase: “Io sono il mio corpo”.
Quando però prendo coscienza di una malattia, o anche soltanto di uno stato di malessere, percepisco il mio corpo come un’entità materiale a sé stante, una “cosa” o, se vogliamo usare il linguaggio lussuoso degli addetti ai lavori, “una macchina fisico-biologica che mi si pone di fronte come “altro da me”, smembrando in tal modo il mio self”. Detto in termini più accessibili, la malattia è uno stato in cui percepisco il mio corpo che viene, pertanto, inconsciamente reso oggetto di esame.
Con felice espressione la scrittrice S.K. Toombs, nel suo libro “Il significato della malattia”, dice: “nella malattia il corpo si intromette nell’esperienza del vissuto” e porta questo esempio:
“…in condizioni normali quando intendo sollevare dal tavolo una tazza per bermi un caffè, non focalizzo
esplicitamente l’attenzione sull’azione compiuta dalla mia mano. La mia attenzione è piuttosto diretta all’azione
intrapresa, cioè sollevare la tazza. Tuttavia se la mano mi fa male, l’attenzione è focalizzata sulla mia mano come
mano. Debbo cioè fare attenzione a come le mie dita afferrano il manico della tazza e prendo coscienza della sua
insolita inefficienza come strumento delle mie azioni.”
Com’è noto, la malattia comporta dei mutamenti anche dal punto di vista delle relazioni sociali. Riporto questo brano di Boris Biancheri che ho tratto da un suo articolo comparso recentemente su “La Stampa” (30 agosto 2002),
“Immaginiamo una persona qualunque, che bada ai propri affari. E' giovane, in buona salute e guarda con fiducia al futuro.
Un giorno come gli altri, senza che nessun sintomo l'abbia preavvertita, da un casuale, banalissimo esame del sangue scopre
di avere una malattia grave, forse mortale. Nulla, per quella persona, sarà come prima. La sua vita, le sue abitudini, i
suoi pensieri gireranno e si orienteranno attorno a quel problema centrale: come vincere quella battaglia. Anche i suoi amici, naturalmente, si preoccupano, gli danno consigli, gli testimoniano solidarietà. Ma dopo un po' per loro la
vita riprende con altre priorità. Per lui, o per lei, non è così: la priorità resta quella”.
Secondo un discutibile ma diffuso principio, chi perde la salute anche solo parzialmente non può più svolgere appieno il suo ruolo nella società, specie se è un ruolo importante, e va quindi emarginato. E' anche per questo motivo che nei posti più elevati del potere la malattia viene spesso negata, rifiutata, coscientemente o meno, anche dai diretti interessati. Un caso eclatante, a questo proposito, mi sembra quello dell’ex-Presidente russo Eltsin, ma non mancano altri esempi nella storia, gravidi di conseguenze, come quelli di Roosvelt e Stalin.
In questo contesto il Papa attuale, a mio modo di vedere e col massimo rispetto, rappresenta un caso particolare. Egli infatti è non soltanto uno dei grandi della terra, ma è anche investito di un carisma unico e incomparabile come “Vicario di Cristo in terra” e se la società moderna considera talora la malattia come una debolezza morale, il Cristianesimo l’ha sempre considerata, più o meno apertamente, come una punizione di Dio per la quale la cura migliore è la preghiera e il pentimento. Un Papa malato è sempre stato, perciò, un paradosso un po' ingombrante da accettare, e Giovanni Paolo II non fa eccezione alla regola. Il Suo stato di malattia, evidenziato impietosamente dai media della comunicazione satellitare che Egli predilige, è stato ed è sistematicamente minimizzato, fino alla negazione, dall’establishment vaticano, nonostante che le parole e il comportamento del diretto Interessato dimostrino il contrario.
Sempre più di frequente, in questi ultimi tempi, personalità molto in vista annunciano pubblicamente e con modalità tali da non passare ignorate dai mezzi di informazione di essere, o di essere state affette da malattie gravi, potenzialmente mortali e dalla guarigione incerta. In questa ondata esibitoria dei propri malanni privati da parte degli uomini di potere, sempre maggiore è il numero di malattie che interessano zone anatomiche privatissime, frattaglie tradizionalmente considerate sconvenienti, come il retto o la prostata, “una ghiandola” quest’ultima, scrive Guido Ceronetti con una delle sue definizioni fulminanti, “[…che], collocata dalla bontà celeste nel garbuglio dei genitali maschili, è un apice del privato”.
Si è passati dall’imbarazzo e dal pudore spinto al ridicolo, quando il discorso cadeva su determinate malattie (pensiamo alla patologia anale o alle malattie a trasmissione sessuale, un tempo ingentilite dal termine veneree) ad una sorta di esibizionismo che addirittura sembra configurarsi come una nuova moda. Però, quando viene usata come strumento autopromozionale, la malattia deve essere nobilitata da un’aura di tragedia che il cancro è in grado di fornire.
Da quanto detto sinora mi sento di affermare che le categorie dei “sani” e degli “ammalati” non sono delle “identità” ben definite. Non vorrei sembrare eccessivamente pessimista ma, nella realtà, siamo tutti, più o meno, ammalati che ricoprono temporaneamente il “ruolo” di sani.
Mi viene in mente una bellissima frase della scrittrice Susan Sontag:
“…la malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa”.
Al tempo di Ippocrate, che visse dal 460 al 377 avanti Cristo ed è considerato il padre della medicina occidentale moderna, il medico era un filosofo, un fisico, un sacerdote depositario della conoscenza, cioè della Gnosi. Dia-gnosi, pro-gnosi sono termini che sono arrivati fino ai tempi nostri.
Nella Grecia antica la medicina ippocratica si sviluppò in una visione cosmologica che considerava inscindibili l’uomo malato e l’ambiente fisico e sociale che lo circonda. Questa concezione dominò nei secoli successivi, raccolta da Galeno, conservata e tramandata dagli Arabi (Avicenna e Averroè in primis), fino a metà del millennio appena concluso. Lo stato di benessere, secondo questa concezione, era assicurato dall'equilibrio dei quattro umori che, secondo questo modello esplicativo, costituirebbero il nostro corpo: il sangue, il flegma (o muco, o catarro), la bile gialla e la bile nera (o atra bile). Ma l'equilibrio degli umori corporei si baserebbe altresì su una consonanza con l'ambiente esterno, inteso come territorio, aria, cibo, bevande, eccetera.
Dal Rinascimento in poi la visione della medicina si restrinse e divenne antropologica: è il corpo del malato, isolato dall’ambiente che lo circonda, che diventa oggetto di studio e di cura. Ed infatti, in questo periodo, l’anatomia, cioè la dissezione del corpo umano a scopo di studio, conosce un momento di grande fervore.
Un ulteriore passo avanti di enorme importanza è stato fatto ad opera di Cartesio che considera l'organismo vivente come una ‘macchina’ e stabilisce una netta separazione, ancora ampiamente accettata ai giorni nostri non soltanto in campo medico, tra spirito e materia, corpo e psiche.
Con Vesalio che, con la pubblicazione del “De humani corporis fabrica” si guadagna giustamente il titolo di fondatore dell’anatomia umana, inizia un modello di interpretazione della malattia che mette in relazione i sintomi clinici con le strutture anatomiche e identifica la malattia con una lesione del corpo, rilevabile con la dissezione anatomica. I segni patologici rilevati in vita tramite la semeiotica (la disciplina che studia i segni e i sintomi delle malattie) vengono comparati con le lesioni anatomiche osservate post mortem tramite la dissezione del cadavere. Sotto lo sguardo del medico che vuol arrivare ad una diagnosi, il “corpo vivente” viene trasformato in “corpo anatomico” e assume quindi la “forma”, (uso il termine forma in senso filosofico) di un cadavere. L’osservazione clinica, per arrivare alla diagnosi, diventa una pre-autopsia e le osservazioni sono anticipazioni di ciò che il riscontro autoptico reale, alla fine, troverebbe, quando va bene, o troverà, quando va male.
Questo modello esplicativo dura tuttora: è solo andato più in profondità. Si è cominciato, con Morgagni, a cercare le lesioni patologiche a livello di organi, si è poi passati ai tessuti con Bichat, quindi alle cellule con Virchow e, oggi, siamo entrati trionfalmente nell'era della biologia molecolare e della genetica.
La rivoluzione scientifica operata da Galileo ha introdotto, in medicina, la misurazione dei fenomeni in termini matematici, e la verifica sperimentale. Nel diciannovesimo secolo poi, in seguito alle scoperte iniziate da Pasteur, che mettono in rapporto la malattia ad una causa ben precisa ed individuabile, i batteri, ebbe inizio il sogno mai realizzato di trasformare la medicina in scienza esatta.
Dal secondo decennio del ‘900 la tecnologia irrompe nel campo di battaglia medico, fornendo agli operatori sanitari strumenti eccezionali e sempre più raffinati. Le conquiste che essi hanno consentito di raggiungere, in campo diagnostico e terapeutico, sono straordinarie e sotto gli occhi di tutti.
Nell’antica Grecia, Asclepio (che verrà chiamato Esculapio nella mitologia romana) era il dio di una medicina praticata dai sacerdoti nei templi a lui dedicati, con un complesso rituale di tipo religioso. Questa medicina “religiosa” precedette di molti anni la medicina “tecnica” di Ippocrate.
Anche in seguito queste due medicine sono convissute per secoli, più o meno pacificamente. Le guarigioni miracolose riportate dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli non rientrano certamente nel filone ippocratico-galenico. I Santi Medici Cosma e Damiano che, secondo la leggenda, eseguirono il trapianto di una gamba, erano medici asclepiei. Addirittura le guarigioni miracolose di Lourdes e degli altri numerosi santuari si possono fare risalire al filone religioso della medicina asclepiea.
Ciò che distingue queste due medicine è la razionalità. La medicina tecnica si sviluppa per deduzione logica, rispettando il principio di causalità. Quella religiosa è, per sua natura, una medicina magica e, come tale, arbitraria e casuale: il miracolo è infatti un’infrazione alle leggi della natura.
Da Ippocrate ai tempi nostri, l’arte lunga della medicina si svolge per quasi due millenni e mezzo seguendo tre filoni:
- quello della Gnosis, cioè la conoscenza, il sapere, ed è quello che abbiamo fin qui considerato;
- quello della Téchne, cioè la pratica, la manualità, la tecnica;
- quello della Praxis, cioè quelle norme di comportamento integrative della dottrina e della capacità professionale che improntano, tra l’altro, il rapporto medico paziente.
Mi soffermo brevemente a considerare questi due ultimi temi.
Se consideriamo il filone della téchne, constatiamo che una cosa che sembra non dover cambiare mai, nella storia della medicina, è l'antica distinzione, spesso conflittuale, tra «sapere» e «manualità». Già nel Giuramento di Ippocrate si afferma:
“Non opererò i malati di calcoli, lasciando tal compito agli esperti di quell'arte”.
Che non è, come da taluni si sostiene, il primo riconoscimento dell'urologia come specialità, ma una presa di distanza, degna di un cattedratico ante litteram, nei confronti della manovalanza che praticava questa tecnica chirurgica (chirurgia vuoi dire appunto lavorare con le proprie mani e non con la mente). In definitiva si tratta della prima enunciazione della distinzione tra «conoscenza» e «tecnica», tra «dottrina» e «pratica», tra «gnósis» e «téchne», distinzione che si riproporrà in forme sempre nuove nel corso dei secoli.
Anche nel filone della téchne abbiamo alcune figure e alcune tappe molto significative. Un personaggio importante è senza dubbio Laennec che, all'inizio del 1800 inventa lo stetoscopio, che possiamo considerare il primo vero strumento tecnologico nel campo della diagnostica medica.
Tutti sappiamo che cos’è lo stetoscopio; mi riferisco a quello di legno che usavano i vecchi medici e che assomigliava, più o meno, a una trombetta. Oggi è sostituito dal fonendoscopio, che nelle fictions televisive viene portato dai medici attorno al collo, come un piccolo pitone e che sembrerebbe avere soltanto più una funzione ornamentale.
Pur nella sua semplicità lo stetoscopio è uno strumento diagnostico che rivoluzionò la pratica della medicina ma, come dice Giorgio Cosmacini, interponendosi tra l'orecchio del medico e il petto o il dorso del paziente, inaugura la tendenza a distanziare l'uno dall'altro.
Con i successi apportati dalla tecnologia, la medicina occidentale acquisisce uno straordinario potere e si pone come l’unica autorizzata ad avere certezze. Essa comincia ad allargare i propri confini impossessandosi non solo delle malattie, ma di tutti gli eventi significativi della vita umana: il nascere e il morire, soprattutto, ma anche, l’attività fisica, lo sport, il sesso, la guerra, il tempo libero, l’alimentazione, le colture agricole, l’allevamento del bestiame, il genoma che codifica la biosfera terrestre e altro ancora. Ha avuto inizio, insomma, un processo generalizzato di medicalizzazione della società. Proponendosi di sconfiggere le malattie e la morte, la medicina moderna si è assunta il compito di condurre l’umanità alla salvezza. Indicativo, in proposito, la recente modifica della denominazione da Ministero della Sanità in Ministero della Salute. Sanitas è infatti il contrario di Infirmitas, termine, questo, che è diventato politicamente molto scorretto (sarebbe come dare del mongoloide a un giovane affetto da sindrome di Down), mentre Salus ha soprattutto il significato di Salvezza, oltre che di Salute. Dunque il messaggio implicito è questo: affidiamoci alla Medicina ed essa ci condurrà alla felicità se non addirittura all’immortalità. Paradossalmente si ignora la contraddizione insita nel fatto che una società medicalizzata è, automaticamente, una società costituita da ammalati.
Ma l'esercizio della medicina è anche, e da sempre, caratterizzato da una visione della vita che oltrepassa le strategie dell'atto terapeutico, che sono diverse e proprie di ogni cultura, pur avendo tutte come fine la cura e, possibilmente, la guarigione del malato. La “prassi medica” (praxis) ha una visione più ampia della vita, che tiene in considerazione valori religiosi e/o filosofici ed è quindi caratterizzata, da sempre, da scelte etiche.
Anche la praxis della medicina occidentale si rifà ad Ippocrate, il cui Giuramento ha, da sempre, condizionato il Codice di Deontologia Medica nelle sue varie stesure. L’etica ippocratica comporta, un ordine preciso: il dovere del medico è fare il bene al paziente e il dovere di questi è di accettarlo. In base al giuramento prestato alla divinità, che lo lega in modo indissolubile all'arte medica, il medico ippocratico è investito di un'altissima responsabilità morale a cui corrisponde, necessariamente, il dovere di obbedienza da parte del malato. E' evidente l'atteggiamento paternalistico che proviene da questa tradizione culturale. Si tratta di un paternalismo forte per il quale il paziente scompare come soggetto autonomo.
Per fortuna oggi il paziente rivendica sempre più spesso, e giustamente, un ruolo da protagonista negli eventi che interessano la sua salute: un atteggiamento che configura il “principio di autonomia”. In base a tale principio ogni essere umano possiede una completa libertà di agire e di disporre delle sue proprietà e della sua persona secondo la sua volontà, nei limiti imposti dalla legge naturale, senza che le sue decisioni possano dipendere dalla volontà di nessun’altra persona. Il paziente ha pertanto il diritto di discutere e rifiutare le cure. Non stupisce che un principio così rivoluzionario stenti ad entrare nel mondo della medicina.
Ed è confortante che al termine del percorso lungo i tre filoni che abbiamo considerato, quello della Gnosi, della Téchne e della Prassi, troviamo tre discipline che hanno tutte lo stesso prefisso: Biomedicina, Biotecnologia, Bioetica. Bios, cioè la Vita.
Nelle lingue neolatine, come l’italiano e il francese, la malattia viene indicata con un unico termine, mentre l’inglese opera un’utilissima distinzione tra Disease, che è la malattia in senso organico come la vede il medico e com’è codificata nei trattati, e Illness, che è la malattia come la percepisce e la vive il paziente. Anche in questo caso uso di proposito il termine “paziente” e non “malato” perché, come si è visto, non sempre lo stato di sofferenza di una persona può essere catalogata e codificata come malattia nota.
Nella medicina occidentale, positivista ed empirica, la malattia è ancora vista come un’entità a sé stante, distinta dal corpo. E’ quello che si definisce il modello ontologico della malattia. Tipico di questa concezione, sia per il paziente che per il medico, è l’abitudine di considerare la malattia come una realtà nemica ed aggressiva (un demone pensavano gli antichi), quindi da combattere ed estirpare.
Questa concezione prescientifica della malattia si riverbera anche nel linguaggio usato che adotta spesso e volentieri una terminologia bellica: “ha avuto un attacco cardiaco”, “è stato colpito da un’infezione virale”, “sta lottando contro il cancro”, occorre “sconfiggere” questo male. Un modo di esprimersi molto diffuso che si estende fino a comprendere, oltre ai microbi, anche agenti eziologici non biologici o, comunque, non chiaramente identificabili.
E a questo punto mi pare che possa cadere opportuna una breve digressione.
Le persone presenti in questa sala sono tutte giovani, ma sono sicuro che la maggior parte di quelli che hanno più di 25 anni porta sulla spalla, più o meno evidente, la cicatrice dell’avvenuta vaccinazione antivaiolosa.
Il vaiolo è stato per molti secoli una vera e propria calamità per il genere umano, una malattia con mortalità elevata che, quando guariva, lasciava sul corpo, in particolare sul viso, delle cicatrici deturpanti. Ora, la vaccinazione di massa, imposta per legge, ha con gli anni determinato una graduale diminuzione dei casi di vaiolo fino alla scomparsa.
Nel 1977 si è verificato, così dicono, l’ultimo caso al mondo di vaiolo e, da tale anno, in Italia la vaccinazione non è più obbligatoria. Nel 1981 essa è stata definitivamente abrogata.
Attualmente tutti i virus del vaiolo ancora esistenti sono conservati, in condizioni di stretta sicurezza, in due laboratori, uno negli Stati Uniti e uno in Russia.
Ciò significa che il piccolo virus del vaiolo è a rischio di estinzione. L’estinzione di una specie vivente è sempre una cosa triste, ma non mi risulta che nessuno abbia speso una parola in difesa del virus, mentre si versano fiumi di inchiostro per il panda, che ostinatamente rifiuta di riprodursi. Neppure col Viagra riescono a risvegliarne gli appetiti sessuali. C’è da dire che vorrei vedere chiunque di noi, mi riferisco alla componente maschile dei presenti, se, mentre si è affaccendati in particolari e privatissime faccende, trenta persone che osservano attentamente si mettessero a gridare: “Dài, dài, che questa volta ce la fai!”
Scusate se mi sono lasciato prendere la mano, ma questa vostra risata mi porge l’occasione per darvi un consiglio: conservate la capacità di ridere anche frequentando l’ospedale considerato, per tradizione, un ambiente di dolore e di tristezza. Il riso, al momento opportuno e nella giusta dose, può essere un’efficace medicina.
Ma, tornando al nostro virus, avrete letto sui giornali che negli USA si stanno contando le scorte di vaccino e in Israele si sta procedendo ad una vaccinazione antivaiolosa di massa. Non si è tenuto conto del fatto che, purtroppo, non sono gli americani e i russi i soli signori della guerra e sembrerebbe che esistano, qua e là, scorte cospicue di virus da usare come arma biologica.
Ma da dove saranno venuti? Questa sarebbe la scomparsa del virus dalla faccia della terra?
In questo incontro tra il linguaggio medico e quello militare, si è assistito ad una curiosa inversione delle parti ed è proprio il linguaggio militare, che ci viene somministrato “in dosi massicce” da radio e televisione, che adotta tipiche espressioni mediche. Per tale motivo i bombardamenti diventano “operazioni” condotte con “precisione chirurgica” e gli errori marchiani che comportano decine, talora centinaia di vittime tra i civili, sono definite “effetti collaterali”. Come la gastrite provocata dall'aspirina.
Ho invano cercato di trovare un termine che corrisponda, in campo militare, a quello di “malasanità”. Penso che non sia possibile e, in ogni caso, non ci sono riuscito. Questo fatto mi ha confermato nella convinzione che non esista una guerra buona e una guerra cattiva: la guerra rimane una cosa intrinsecamente perversa. Ma questa considerazione non mi è di grande conforto, visti i tempi che stiamo vivendo.
Nonostante tutto, io mi sento di trarre una morale da tutto ciò: pensare di sconfiggere la malattia, qualunque malattia, è un’utopia. Secondo me le malattie non vanno considerate come nemici da combattere e annientare. Non ci riusciremo perché esse sono eventi naturali da affrontare e contenere singolarmente. Il vecchio adagio che suona: “non esistono malattie, ma malati” conserva, a mio modo di vedere, tutta la sua validità.
Purtroppo però la scienza medica “rifiuta la soggettività del malato” e nell’ideologia dominante del nostro mondo occidentale la realtà è la malattia, non il malato.
Forse è venuto il momento di non considerare più la malattia soltanto come un guasto del corpo-macchina, ma come “un’esperienza esistenziale situata tra la vita e la morte”, perché ”le malattie non si verificano nel corpo, bensì nella vita, […] nel tempo, in un luogo, nella storia, nel contesto dell’esperienza vissuta e nel mondo sociale” (B.J. Good).
Il primo libro degli Aforismi di Ippocrate comincia con queste parole di straordinaria modernità:
“La vita è breve, l’arte lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile”.
Oggi si fa un gran parlare di postmoderno. Come dice il termine stesso, è un movimento culturale che viene dopo il modernismo, il quale, a sua volta, iniziò nel Settecento (il secolo dei Lumi) e si propose, tra le altre cose, la costruzione di una scienza obiettiva, basata sulla ragione. Il postmodernismo, il cui inizio si pone a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, non va inteso soltanto in termini cronologici, ma come sviluppo derivante da una crisi profonda che ha portato al superamento delle certezze che il modernismo dava per acquisite.
A differenza di altre discipline, per esempio la filosofia, la letteratura e l’arte in genere, in medicina si parla poco di “postmoderno”. Eppure l’era postmoderna è iniziata anche per la medicina non da oggi e vorrei qui prenderne in considerazione, brevissimamente, due aspetti.
Uno degli argomenti più intriganti della filosofia postmoderna è l’accettazione del pluralismo e del relativismo culturali, che in campo medico si configurano nelle cosiddette medicine alternative. Sotto questo punto di vista la medicina occidentale resta ancorata al passato, tenacemente aggrappata ai suoi dogmi, ai suoi miti, alle sue ambiguità, ai suoi rituali, alle sue aporie, alle sue contraddizioni e, diciamolo pure fuori dai denti, anche ai suoi interessi economici. Essa rigetta e combatte le medicine alternative oppure le adatta, con molte forzature, al proprio credo, com’è successo per l’agopuntura. Ma nonostante ciò, queste medicine eretiche esercitano nel pubblico un fascino via via maggiore. Non mi riferisco alla ciarlataneria, che peraltro esiste da sempre. Ma, pur restando nei confini di una corretta ortodossia scientifica, è esperienza quotidiana di ogni medico pratico che anche con un placebo, cioè un farmaco per definizione inefficace, si possono spesso ottenere risultati positivi che non hanno una giustificazione scientifica.
A mio modo di vedere, tuttavia, l’elemento più interessante della cultura postmoderna applicata alla medicina è rappresentato dalle motivazioni etiche.
Il modernismo ha privilegiato il sapere (gnosis), mentre il postmodernismo ha un indirizzo pragmatico e considera la medicina soprattutto una scienza pratica. In una visione postmoderna della medicina, il sapere rimane un mezzo indispensabile ma viene privilegiata la praxis che, anche di questo abbiamo parlato, fin dai tempi antichi si fonda su scelte etiche. I concetti di malattia e i modi per curarla possono essere diversi, ma unica deve essere la risposta fondata sull’imperativo deontologico dell’agire, per il quale la malattia è, sempre, la richiesta da parte del malato di modificare uno stato di disagio o di sofferenza. A questo scopo, è non solo consigliabile, ma doveroso ricorrere a tutti, sottolineo tutti, i metodi utilizzabili.
E vorrei concludere riportando un caso, a mio avviso, emblematico. Si è parlato recentemente dell’efficacia dell’hashish, o marijuana, nell’attenuare il dolore e, soprattutto, la nausea e il vomito dei pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia. L’efficacia dello spinello in questo senso è stata constatata da tempo e, oggi, anche la medicina scientifica ne prende atto. Però che cosa fa, la medicina ufficiale? Logicamente decide di agire scientificamente. Allora isola il principio attivo della canapa indiana, il cannabinolo, e lo somministra sotto forma di farmaco, confrontandolo con le altre sostanze già conosciute con azione analoga. Sulla scorta di questi risultati sostiene che il cannabinolo non offre vantaggi rispetto alle altre sostanze.
Ma non sarà proprio il fatto di fumare l’hashish, e non di ingurgitarne il principio attivo sotto forma di pillole o gocce, in altre parole non sarà il rituale di farsi uno spinello, con tutto il suo peso di trasgressione che questo atto comporta, ad esaltare l’azione del cannabinolo come agente terapeutico?
Non prendete queste mie parole come un incentivo a drogarsi: stiamo parlando di pazienti terminali. Ciononostante una visione conciliante, a questo riguardo, si scontra col dogma medico che oggi considera il fumo un peccato immondo e la marijuana una delle tante piaghe da sradicare dalla faccia della terra, con le altre droghe, con il vaiolo e col terrorismo.