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Le tentazioni di un medico di guardia

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Le tentazioni di un medico di guardia


Torino, Ospedale Molinette, Luglio 1969 (o giù di lì)

Mezzanotte era già passata da un pezzo. La situazione era finalmente tranquilla. Avevo appena terminato il giro della corsia, prescritto qualche ansiolitico e l’ultimo analgesico, e mi ritirai, stanco ed un po’ assonnato, nella stanza del medico di guardia.
La porta si richiuse dietro di me, ed io rimasi in piedi osservando meccanicamente, nella luce fioca, il mesto squallore architettonico-strutturale del locale.
Era una stanza veramente stranissima: a forma di L invertita (cioè con il tratto orizzontale rivolto a sinistra), le pareti di un indefinibile bianco sporco istoriate qua e là dal tempo, il cigolante lettino di ferro battuto ficcato nell’angolo e nella parte più corta, proprio vicino alla porta d’ingresso, fronteggiata da un’altra porta posta proprio davanti, che era quella dei servizi: tutte le volte che una persona entrava in quella stanza per la prima volta proseguiva diritto, apriva la porta di fronte e si ritrovava nel cesso.
Invece bisognava girare a destra rasentando il letto, e poi a sinistra, per raggiungere la stanza vera e propria, lunga e stretta come un corridoio, con una piccola scrivania sulla destra ed in fondo una finestra che dava su corso Polonia e sul Po, attraverso la quale non mi risulta che alcuno – anche nell’arco di parecchi anni – sia mai riuscito a scorgere una giornata di bel tempo e di sole. Solo nebbia, cieli lividi e plumbei, asfalto lucido di pioggia ed acque del fiume perennemente sporche e giallastre. Una finestra sulla tristezza.


L’unica cosa, in quella stanza, che fosse in grado di rinfrancare un pochino un povero medico di guardia notturna di sesso maschile, era il grande paginone centrale, a colori, della rivista Playboy, che io stesso, qualche tempo prima, avevo attaccato col nastro adesivo alla parete di sinistra, in modo che potesse essere visto stando coricato sul letto, e che aveva suscitato l’indifferenza dei più e la disapprovazione indignata di un mio collega: aveva gettato un rapido sguardo alla bella ragazza nuda e con le tette al vento che vi era ritratta, aggrottato le sopracciglia, storto in giù gli angoli della bocca, e se ne era andato a passo di carica dicendo lapidariamente una sola parola: “Volgare!”.
Ma che volgare! Era un bellissimo pezzo… Va bene, d’accordo, forse un pochino volgare lo era. Ma era anche molto bella, l’unica cosa bella che ci fosse in tutto il locale. E poi, in una situazione di disperante penuria di compagnia femminile come quelli che io vivevo a quei tempi, era per me pur sempre una sia pur piccola, misera, plastificata consolazione nel corso delle lunghe notti di guardia. E così avevo preteso ed ottenuto che rimanesse al suo posto.
Allungai una mano verso la tasca della mia giacca, appesa all’attaccapanni, ne estrassi un pacchetto di sigarette e l’accendino, e feci per accendermene una: allora, negli studi privati, era ancora consentito fumare, anche se all’interno di un ospedale. Ma il mio gesto rimase a metà strada: potevo fumare, in quella stanza, ma sapevo che alcuni colleghi non avrebbero gradito, prendendo servizio dopo di me, trovare il locale saturo di fumo. Mi rassegnai, e posai pacchetto ed accendino sulla scrivania, mentre il mio sguardo vagava per la stanza.
Il mio sguardo stava appunto posandosi sull’immagine della ragazza di Playboy – per essere onesti su alcune parti dell’immagine – quando sentii dietro di me una serie di colpetti sul legno della porta, un lieve bussare dal tono inequivocabilmente…. si, inequivocabilmente furtivo. Pensai: ma chi diavolo può bussare alla porta del medico di guardia, e a quest’ora? Ero infatti sin da quel momento in grado di escludere senza incertezze che si trattasse di una chiamata infermieristica per richiedere il mio intervento su un paziente: in quei casi, lo capivi subito, poiché la porta veniva puntualmente scossa e strattonata con una certa rudezza.

Con questo dubbio nella mente, mi voltai, posai la mano sulla maniglia, e spalancai la porta. E poi rimasi lì, con la mano sulla maniglia, in silenzio e con la bocca spalancata.


Prima ancora di vedere con gli occhi chi avevo davanti, fui colpito dal profumo: un profumo scuro, dolce, languido, orientaleggiante. E dietro al profumo c’era lei.
Beh, forse – ad essere proprio sinceri - non la si sarebbe potuta definire veramente “bella”. Ma sexy, sì, ed anche parecchio.
Mollemente appoggiata con il braccio destro allo stipite della porta, sorriso smagliante sotto i lunghi capelli, abbigliamento assolutamente non ridondante, diciamo adeguato all’afa di una notte di Luglio, mi guardava in silenzio, senza dire nulla. Anch’io rimanevo in silenzio, anche se avrei voluto dire molte cose.
Alla fine, riavviandosi con un gesto lungo e lento una ciocca ribelle di capelli, disse con voce flautata ed accentuando ancora il suo sorriso:
“Buonasera. Io cerco il medico di guardia notturna”.
“Sono io”
, risposi immediatamente, illudendomi che fosse la risposta esatta.
Vidi gli angoli della sua bocca spianarsi, mentre il sorriso scompariva dalla sua faccia. Vidi il suo sguardo scorrere dall’alto in basso e poi dal basso di nuovo in alto sulla mia persona, sul camice bianco spiegazzato e un po’ sdrucito, sulla stinta dolce vita a girocollo, sui capelli scompigliati e sugli occhi già un po’ cisposi ed assonnati per la stanchezza. Poi, senza rumore, senza produrre neppure il più lieve fruscio, la vidi ritrarsi borbottando qualcosa come:
“Devo proprio aver sbagliato notte…”.
Ma era solo un mormorare tra sé e sé, e le parole non erano già più dirette al sottoscritto.
Rimasi sulla soglia per qualche minuto ancora, le mani sui due stipiti, sporto un po’ in fuori a scrutare la semioscurità del lungo corridoio in cui era sparita, senza dire né pensare nulla. Poi rientrai nella stanza, tirando la porta dietro di me. Il solito lieve scatto mi informò che si era chiusa.
Nell’afa di Luglio, mi attendeva una lunga, e nella migliore delle ipotesi – se nessuno aveva bisogno di me – noiosa notte di guardia. Avanzai nella stanza a casaccio, con la mente vuota. Il silenzio era assoluto, la luce fioca e giallastra. La bellona nuda di Playboy continuava a guardarmi stupidamente dal muro dov’era appesa.
Alla fine mi avvicinai alla scrivania e, ormai del tutto libero da remore psicologiche antinicotiniche, presi il pacchetto e l’accendino e mi accesi adagio la prima di una serie di sigarette.

Giuliano Giachino


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