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Dialisi odiata amica, trapianto nemico amato

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11
Dialisi odiata amica,
trapianto nemico amato.

 
Forse dobbiamo progredire da una moderazione nell’uso del potere, cosa che è stata sempre consigliabile, a una moderazione nell’acquisire potere.
(Hans Jonas)

   
 
         Esiste una ‘Vulgata’ ampiamente accreditata che, nella cura del paziente affetto da malattia renale cronica, identifica nella dialisi tutto il male e nel trapianto tutto il bene. La dialisi gode, insomma, di una pessima reputazione.
         Nei settimanali e nella stampa divulgativa in genere, fotografie di pazienti in dialisi vengono spesso usate come illustrazione di situazioni negative: cura dei malati terminali, scarsa allocazione delle risorse, ecc. I trapiantati invece hanno un trattamento diverso: partecipano a gare olimpiche e vincono maratone. Ma le cose stanno veramente così?
         E’ naturale che i dializzati, come in genere tutti i malati cronici, si sentano traditi dalla natura: soltanto i mistici godono delle proprie sofferenze. Ma, generalmente, chi entra in dialisi dirotta rapidamente verso altri obiettivi e interessi le energie derivanti dalle preoccupazioni che prima condivideva con le persone cosiddette sane.
         La “condanna alla dialisi” evoca accanto alla paura della morte, come avviene per ogni evento morboso grave, anche la paura, in un certo senso aggiuntiva, di una sopravvivenza tecnologica come unica via di uscita. L’ambiente della dialisi è dunque un mondo sospeso e precario, ma non per questo è un mondo lugubre, anzi. La connotazione negativa, del trattamento più che della malattia, in genere deriva o, quanto meno, viene amplificata, dalle persone sane più che dai pazienti direttamente interessati. E non dai sani che sono loro affettivamente vicini, ma da coloro che non hanno nulla a che fare con essi.
         Stando così le cose, il paziente e i suoi familiari vedono nel trapianto non una ‘sopravvivenza tecnologica’ ma una ‘sopravvivenza biologica’, quindi una specie di guarigione. Una siffatta interpretazione è molto più tranquillizzante non soltanto per il paziente, ma anche per gli operatori sanitari. Però, intesa in questo senso, essa è parzialmente mistificante.
         Si fa un gran parlare del “calvario” della dialisi ignorando che, non infrequentemente, anche la vita del paziente trapiantato non è un giro di valzer. Soprattutto, ha una durata limitata nel tempo e non rappresenta in nessun caso la guarigione della malattia.
         Il rene ha avuto una parte molto rilevante durante la prima parte dell’era dei trapianti,  quella più eroica e stimolante, ma anche la più difficile dal punto di vista antropologico. Barnard eseguì il suo primo trapianto cardiaco nel ’67, quando già da quasi quindici anni si eseguivano trapianti di rene. Ci si è trovati di fronte, in quel periodo, a scelte etiche impegnative, alla necessità di una nuova e sconcertante formulazione della morte e ad una conseguente svalutazione del ‘ruolo simbolico’, molto forte nella nostra cultura, di cui è investito il corpo morto. La forza delle emozioni suscitate da queste problematiche rendeva e rende tuttora difficile un consenso immediato e diffuso a quest’approccio terapeutico e ha portato ad un’intensa campagna, diciamo, promozionale in cui si valorizzarono al massimo gli aspetti positivi della donazione di organi a scopo di trapianto.
         Ma il desiderio di diffondere questa pratica terapeutica ha portato, spesso, a una valutazione incorretta dei suoi limiti terapeutici e alla creazione di aspettative eccessive. A poco a poco si è arrivati ad una specie di ‘sacralizzazione’ della donazione d’organo, che ha acquistato i suoi dogmi e i suoi rituali e ha comportato, per reazione, posizioni di rifiuto fondamentaliste addirittura esasperate, tanto da ricordare quasi le guerre di religione. A tutto ciò si aggiunga il fatto che i mezzi di diffusione hanno sempre sottolineato l’aspetto miracolistico del trapianto, dando un’immagine che non sempre corrisponde alla realtà, anzi spesso la travisa in modo clamoroso.
         Sempre per quanto riguarda il rene al trapianto da cadavere, si è affiancata, fin dall’inizio, la pratica del trapianto da donatore vivente, inizialmente limitata ai consanguinei e successivamente, in seguito al diffondersi di terapie antirigetto più efficaci e alla cronica penuria di organi, estesa anche a donatori non consanguinei.
         Se per il trapianto da cadavere la parola “dono” può apparire eccessiva, certamente non lo è per il trapianto da vivente, perché donare è privarsi di qualcosa a favore di un altro con un libero atto di volontà e senza aspettarsi ricompense. Ma sono in molti a pensare, ed io tra questi, che il dono completamente gratuito sia una cosa rara. Chi dona si aspetta sempre un riscontro, non fosse altro un po’ di gratitudine.
         Chi scrive ritiene che, nel campo dei trapianti, l’unico dono veramente gratuito sia possibile da genitori a figli e che la donazione tra viventi non consanguinei sia molto rischiosa. Non per nulla la pratica del trapianto da vivente ha determinato il nascere del commercio criminoso di organi, che ha portato agli eccessi di cui tutti abbiamo sentito parlare. Insomma è grosso il rischio che il dono si trasformi nella mela avvelenata di Biancaneve.
         Il/la paziente affetto/a da insufficienza renale cronica terminale e i suoi familiari si trovano a dover affrontare scelte terribilmente impegnative. Essi hanno davanti a sé una gamma di soluzioni più o meno agevolmente percorribili ma tutte, per un verso o per l’altro, poco allettanti. Tuttavia in questo campionario non si trova, per il momento almeno, il miracolo della scienza, mentre è possibile che si trovi talora il miracolo dell’amore. Non è una cosa da poco. Noi tutti abbiamo un grande bisogno di credere ai miracoli, ma essi, per definizione, sono una cosa rara, anzi eccezionale.
         Ogni terapia sostitutiva della funzione renale, trapianto compreso, non è un sistema di mantenimento della salute, ma un sistema di contenimento della malattia. Il trapianto renale è una delle possibili terapie sostitutive della funzione renale, che ha, rispetto alla dialisi, vantaggi e svantaggi. Ma il trapianto renale non rappresenta la guarigione. Questo è bene che venga messo in chiaro, fin dall’inizio, per evitare che nascano false aspettative che possono, in seguito, avere effetti devastanti.
         E’ mia convinzione che la soluzione del problema vada individuata altrove. Precisamente nella prevenzione e nella ricerca di una terapia farmacologia efficace delle malattie renali che tendono a cronicizzare, e possibilmente in una loro guarigione, più che nel potenziamento dell’harvesting degli organi da trapiantare come, con suggestiva immagine viene, generalmente definito (to harvest = mietere).

Gigi Cavalli




 
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