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"Eutanasia” non è una brutta parola

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11
“EUTANASIA” NON E’ UNA BRUTTA PAROLA
 
 
Pier Luigi Cavalli
 
 

         La notizia appare sui quotidiani del 23 marzo: l’Alta Corte di Londra ha stabilito il diritto di Miss «B» di chiedere lo spegnimento della macchina che la tiene in vita. Miss «B» era (poiché la sua decisione è stata messa in atto alla fine di aprile) una donna di 43 anni, tetraplegica, mantenuta in vita artificialmente da un respiratore automatico.
         Com’era prevedibile, le reazioni al primo annuncio non si sono fatte attendere. Tra le più autorevoli, ricordo quelle del Ministro della Salute che ha stigmatizzato l’evento definendolo tout court un “suicidio legalizzato”, e del prof. Demetrio Neri, Ordinario di Bioetica all’Università di Messina, che ha parlato invece di “interruzione del trattamento terapeutico” e rilevato che il diritto di accettare o rifiutare i trattamenti medici è sancito dalla nostra Costituzione.
         Questa vicenda sarebbe finita nel dimenticatoio della memoria se, a pochi giorni di distanza dai fatti sopra riferiti, non si fosse verificato un susseguirsi di eventi, in qualche modo collegati al primo, che hanno scatenato discussioni senza fine. Anzitutto:
         ·         la legge varata in Olanda che legalizza l’eutanasia;
         ·         poi l’assoluzione, da parte del tribunale, di Ezio Forzatti, incriminato a suo tempo di omicidio volontario per aver
        ·         spento le apparecchiature che tenevano in vita la moglie in coma, dopo aver fatto irruzione, pistola scarica in mano,
        ·         nel reparto di Rianimazione dov’era ricoverata;
         ·         da ultimo il rifiuto da parte della Corte europea di autorizzare il suicidio assistito sollecitato da Dianne Pretty, anch’essa
        ·         tetraplegica e con una prognosi infausta.
         Situazioni molto diverse tra loro, accomunate tuttavia, sia nel comune sentire che nei discorsi degli esperti, dal termine “eutanasia”.
         Ora la domanda che mi pongo è questa: è corretto l’uso di questo termine in tutti i casi che ho sopra riportato?
         Nell'ampia gamma delle definizioni che sono state date al termine “eutanasia”, consideriamo quelle che si pongono ai due estremi:
         ·         soppressione deliberata di una persona sofferente;
         ·         morte accettata come naturale compimento della vita.
         Come si vede tra le due definizioni, entrambe corrette, esiste uno spazio sufficiente a contenere moltissime situazioni e tra esse, certamente, possiamo far rientrare anche i casi di cui si parla.
         Il termine ‘eutanasia’, è stato detto, è una sorta di attaccapanni al quale ciascuno appende la definizione che preferisce ed è fuor di dubbio che l’uso che i medici nazisti ne hanno fatto, ma non solo loro, ha infettato irrimediabilmente il termine, dando ad esso una connotazione fortemente negativa che ispira un’istintiva repulsione.
         A questo proposito ricorro ad un confronto tra due situazioni, confronto che deliberatamente ignora i chiaroscuri. Mi sembra profondamente sbagliato accomunare in uno stesso significato e sotto uno stesso termine l’iniezione somministrata dal veterinario amico al vecchio cane sofferente, al quale ho voluto bene e che mi è stato fedele compagno per tutta la durata della sua vita, e l’iniezione letale praticata da medici (!) a bambini e adulti fisicamente o mentalmente handicappati.
         Molti sono convinti che, nel caso del cane l’operazione non sia condannabile perché, nella concezione antropocentrica della nostra cultura, gli animali non sono persone e non hanno un’anima spirituale. Per questa ragione, la stessa azione, quando viene eseguita su un animale umano, è da questi stessi fieramente esecrata, sempre e in ogni caso.
         A mio modo di vedere, tuttavia, esistono differenze più profonde tra questi due esempi che spero di riuscire a chiarire. Il prefisso “eu” vuol dire “bene”, “buono” e, nel caso della morte procurata (tanasia) ha senso quando il gesto è il frutto di un atto di pietà, talora addirittura d’amore, anche se è in contrasto con la legge. Ma in nessun modo il prefisso può essere applicato all’azione infame dei medici nazisti. Con maggior proprietà di linguaggio dovremmo parlare, in questo caso, di “cacotanasia” (=mala morte) e contribuiremmo, così facendo, a togliere almeno in parte la connotazione negativa impropriamente legata al primo termine.
         Sempre in quest’ottica mi sembra che il confine tra la rinuncia all’accanimento terapeutico, quando ciò accelera la morte, e l’eutanasia, non sia così netto come affermano in proposito il cardinale Tonini e monsignor Elio Sgreccia, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Roma. Si tratta, anche in questo caso, di non aver paura delle parole.
         Omicidi, guerra, pulizia etnica, esecuzioni capitali, azioni di kamikaze, vivisezione, accanimento terapeutico, sono tutte forme di “cacotanasia”. Ma forse è troppo semplicistico fare di ogni erba un fascio. La scenografia dell’esecuzione capitale di Mora e Piazza, descritta dal Manzoni nella “Storia della Colonna Infame”, non è certamente paragonabile alle moderne, asettiche esecuzioni condotte mediante iniezione letale.
         Esistono dunque forme di “cacotanasia” barbara, brutale e forme più difficili da incasellare come tali perché più razionali e più presentabili. Quasi sempre queste ultime sono, purtroppo, figlie della medicina occidentale moderna, la quale, a sua volta, è l’erede della tradizione illuminista.
         Il positivismo del secolo diciannovesimo dà inizio al sogno mai realizzato di trasformare la medicina in scienza esatta e, dal secondo decennio del ‘900, irrompe in campo medico la tecnologia, che fornisce agli operatori sanitari strumenti eccezionali e sempre più raffinati. Le conquiste che essi hanno consentito di raggiungere, in campo diagnostico e terapeutico, sono indiscutibili e straordinarie. Attualmente la medicina occidentale si pone come l’unica autorizzata ad avere certezze ed ha allargato i propri confini impossessandosi non solo delle malattie, ma di tutti gli eventi significativi della vita umana: il nascere e il morire, soprattutto, ma anche, l’attività fisica, lo sport, il sesso, la guerra, il tempo libero, l’alimentazione, le colture agricole, l’allevamento del bestiame, il genoma che codifica la biosfera terrestre e altro ancora. Ha avuto inizio, insomma, un processo generalizzato di medicalizzazione della società e, di conseguenza, il potere della medicina si è ampliato enormemente.
         Proponendosi di sconfiggere le malattie e la morte, la medicina moderna si è assunta il compito di condurre l’umanità alla salvezza. Indicativo, in proposito, la recente modifica della denominazione da Ministero della Sanità in Ministero della Salute. Sanitas è infatti il contrario di Infirmitas, termine, questo, che è diventato politicamente molto scorretto, mentre Salus ha soprattutto il significato di Salvezza, oltre che di Salute. Dunque il messaggio implicito è questo: affidiamoci alla Medicina ed essa ci condurrà alla felicità se non addirittura all’immortalità. Paradossalmente si ignora la contraddizione insita nel fatto che una società medicalizzata è, automaticamente, una società costituita da ammalati.
         Facendo ricorso alle parole di Norberto Bobbio, oggi ci troviamo di fronte ad una profonda “contraddizione tra lo sviluppo della scienza e i grandi interrogativi etici che questo sviluppo comporta, tra la nostra sapienza di indagatori del cosmo e il nostro analfabetismo morale”. Rimane valido tuttavia, anche nell’epoca postmoderna che stiamo vivendo, l’antico imperativo imposto al medico di agire “secondo scienza e coscienza”. Ma non si deve dimenticare che, mentre la scienza è condivisa, la coscienza è individuale. Di fronte a problematiche impegnative, come quelle riferite in questo articolo, grande è il peso delle decisioni che grava sul medico ed è quindi comprensibile la ricerca del sostegno che può essere fornito dall’uomo di legge o dall’uomo di fede. Ciò che invece non è accettabile è il rifiuto di lasciarsi imprigionare in una responsabilità diretta: l’uomo di medicina che si trova ad affrontare questi problemi, non deve cercare vie di fuga ricorrendo a cavilli giuridici, ad una burocratizzazione esasperata o a comportamenti surrettizi.




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